La carriera letteraria di Kevin Barry nasce dalla congiunzione di un sogno e di un incubo, entrambi precoci. Il sogno era, racconta Barry, «diventare il più grande scrittore ebraico della mia generazione, un autore del livello di Roth o di Malamud, anzi meglio. Solo che per un ventenne lentigginoso di Cork, Irlanda, la faccenda si presentava un po' complicata». Quanto all'incubo, coincideva col pensum imposto dall'industria editoriale a qualsiasi debuttante: trovare una voce (e poi vivere di quella). Bene, dal momento che la sola idea «di sentirsi frastornare per i successivi trenta o quarant'anni da quella benedetta voce, sempre uguale» gli faceva accapponare la pelle, Barry ha tempestivamente optato per una via diversa: scrivere, con la stessa gioia selvaggia che il lettore, per osmosi, prova leggendole, le storie in cui si imbatteva più o meno tutti i giorni, fra le strade e i pub della sua Irlanda. Storie nere, quasi sempre, i cui personaggi non solo sbagliano, ma perseverano, diabolicamente, nell'errore. Un ragazzo esce da un carcere minorile dopo una condanna per spaccio di anfetamine, e ha un'idea luminosa per cominciare una nuova vita: spacciare anfetamine. Un suo coetaneo, sui tetti di Cork, pensa di baciare una sua amica talmente a lungo, e così tormentosamente, da disintegrare anche solo la possibilità di farlo. Due vecchiette battono la campagna in quello che sembra un incantevole road movie della terza età, finché non scopriamo che si tratta di due predatrici, impegnate in una battuta di caccia molto poco innocente. Si ride senza smettere mai, in questo libro: ma come ridono gli ospiti dello strano albergo sul fiordo di Killary, dove durante una pioggia torrenziale l'acqua ricopre il pavimento: e poi, poco a poco, comincia a salire. E a salire. E a salire.