Migranti e relitti si inabissano ogni giorno nei nostri mari, con una progressione da ecatombe.
I «naufraghi dello sviluppo» di cui Serge Latouche parlava ventisei anni fa, quando uscì la prima edizione del libro, divenuto un classico della decrescita, adesso hanno i volti degli oltre quindicimila esseri umani già risucchiati in cimiteri d’acqua.
Non accade spesso che espressioni metaforiche – il naufragio, gli approdi dei sopravvissuti – si inverino tragicamente, sacrificando il possibile che racchiudevano alla realtà peggiore. Un esito tuttavia non imprevisto, quantomeno da parte di Latouche, che nel momento in cui l’Occidente presagiva i trionfi dell’incipiente globalizzazione consegnava a queste pagine un’analisi senza scampo della logica produttivistica e delle sue conseguenze nefaste, e al contempo si congedava dai miti messianici del terzomondismo. Ciascuna osservazione di allora conserva una «terribile attualità» ed è traducibile alla lettera nelle parole-chiave degli odierni obiettori di crescita, se si sostituiscono sviluppo con crescita e doposviluppo con decrescita. Spinti ai margini di tutto dalla tracotanza della modernità, i «naufraghi» raccolgono i Quarti Mondi degli esclusi dei Paesi ricchi e di quelli meno avanzati, e le minoranze autoctone a rischio di deculturazione. La loro forma di resistenza è affidata per intero alla «nebulosa dell’informale», ossia a pratiche economiche atipiche che generano reciprocità in quanto fatti sociali totali, secondo criteri estranei alle categorie del dinamismo industriale. Dai loro fragili laboratori di decrescita non nascono infatti né un capitalismo scalzo né uno sviluppo alternativo, ma prende vita quell’alternativa allo sviluppo che forse sarà in grado di scongiurare la catastrofe.